Scegliere l’altro. Kundalini yoga e meditazione in carcere

a cura del prof. Roberto Santokh S. Cagliero

 

La pratica dello yoga in carcere risponde a varie necessità fisiche e mentali che la quotidianità dello stato di reclusione difficilmente riesce a soddisfare. Ci sono ovviamente problematiche ambientali, ad esempio l’abitudine a vivere in spazi ristretti, che finiscono per limitare un uso libero del movimento fisico. Chi vive in carcere sa che oltre una certa estensione ci sono ostacoli fisici che non permettono di andare.

dalla rivista “Pantheon” di settembre 2018

 

 

 

Non sono insoliti i casi di spaesamento tra gli allievi di un corso di yoga in carcere. Trovandosi improvvisamente in un contesto nel quale la libertà di movimento è garantita da spazi più ampi, non riescono comunque ad esprimersi se non frenando ad esempio gli arti. Vi è un’abitudine a contenersi per non colpire pareti, suppellettili o compagni di cella. In questi casi il kundalini yoga e la meditazione possono fornire strumenti molto efficaci per produrre nell’allievo un senso di espansione, evidentemente benefico sotto vari punti di vista.

A partire da questa premessa l’insegnante di yoga in carcere deve rieducare alla libertà di movimento, modificando la sensazione dello spazio. Sempre sul piano del rapporto con l’ambiente circostante, gli allievi manifestano una polarità che si alterna tra una allerta e una distrazione egualmente eccessive. Ciò è dovuto da una parte all’impossibilità di vivere in modo rilassato, senza controllare continuamente il proprio contesto spaziale per anticipare eventuali pericoli o situazioni potenzialmente minacciose; e dall’altro dall’impossibilità altrettanto forte di concentrarsi su un presente traumatico e in grado di riattivare traumi passati, che spinge l’individuo nella direzione di una distrazione falsamente liberatrice. Anche qui le meditazioni del Kundalini Yoga possono contribuire a ridurre la polarità concentrazione/distrazione, attivando il sistema nervoso fino al punto in cui un comportamento positivo, contrassegnato da una maggiore apertura del cuore e da uno stato di allerta più basso, non sia più percepito come pericoloso o semplicemente dannoso.

Tra i vari atteggiamenti che assumono gli allievi nelle prime lezioni si nota soprattutto la necessità di proteggersi, di non abbassare la guardia, il che non favorisce la pratica e tantomeno il riconoscimento dei suoi effetti benefici.  In un universo potenzialmente problematico, chiedere a un allievo di rilassarsi, o iniziare una lezione con un semplice rilassamento, non è necessariamente una buona scelta: bisogna essere consapevoli dello stato emozionale in cui si muovono queste persone, tra l’altro molto abili a dissimulare disagi o paure. Un atteggiamento sicuro è infatti considerato fondamentale per la sopravvivenza in carcere, anche nel caso di istituti con un livello di violenza molto bassa (la violenza è soltanto uno degli elementi problematici nei rapporti tra detenuti). Chi vive in carcere è costantemente attento a quello che fa e a quello che dice, e alle possibili conseguenze delle sue parole e delle sue azioni. Esiste un regolamento invisibile, interiore, e dare l’impressione che possa essere fruttuosamente abbandonato nel contesto di una lezione di meditazione o di yoga è una delle prime cose da fare. Alcuni allievi faticano a togliersi le scarpe o a mettersi in posizioni rilassate, in cui si sentono indifesi. Inoltre si osserva spesso un sentimento nascosto di vergogna. Nell’immaginario del carcere (e non solo, ma qui di più), le pratiche yogiche sembrano studiate per signore annoiate o depresse, in ogni caso non per uomini e non per uomini che vivono in condizioni così particolari. Alcuni praticano ‘a metà’ poiché sentono la necessità di non entrare in conflitto con la presunta impressione generalizzata che si tratti di pratiche demascolinizzanti.

Un altro elemento potenzialmente problematico è la visione religiosa: in una classe si trovano tipicamente cattolici, protestanti, cristiani ortodossi e musulmani. Sono persone che possono in alcuni casi percepire nella pratica yogica, o in alcune sue espressioni come ad esempio l’uso dei mantra, un elemento religioso in conflitto con le loro credenze. L’insegnante di yoga in carcere deve avere presente la necessità di fare capire che non è un missionario e che non ha da vendere alcun pensiero religioso. I mantra vanno introdotti soltanto quando il gruppo riesce ad affidarsi a chi insegna.

Un altro elemento da tenere sempre in considerazione potremmo chiamarlo effetto iceberg. Chi viene alla lezione arriva sorridente, riconoscente per la possibilità che gli viene offerta. Questo l’ho sempre constatato e non ho mai avuto un’impressione di falsità nell’atteggiamento dei partecipanti. Ma come arriva alla lezione? Quello che l’insegnante vede è soltanto la punta dell’iceberg. L’allievo potrebbe essere reduce da una comunicazione negativa dell’avvocato, da una udienza andata storta, da uno scontro con altri abitanti del carcere o con il personale, da una lettera che comunica un lutto o un problema che da dentro non si può affrontare. Oppure può essere in preda ai postumi dell’uso di sonniferi e calmanti, a cui la popolazione penitenziaria tende spesso a ricorrere. Giustificate o meno che siano, le emozioni che ne scaturiscono sono l’effetto di un trauma. L’insegnante di yoga non può credere totalmente a quello che vede, e questo non tanto per fare lo psicologo (pessima idea) ma per capire meglio come si muove la mente del gruppo che ha davanti a sé. Contemporaneamente bisogna evitare di trattare gli allievi come porcellane preziose: chi vive in carcere fa di tutto per avere e dare l’impressione di condurre una vita normale, e vedersi trattato con attenzione gli toglie questo piccolo piacere.

Un’altra difficoltà (ce ne sono molte di più, che intendo affrontare con una argomentazione più articolata) è quella di assumersi la responsabilità del reato e a uscire dal loop colpa/rabbia. La resilienza parte di qui, e nonostante vari tentativi siano in corso anche in Italia (ad esempio con la giustizia riparativa), è difficile trovare in carcere allievi pronti a riconoscere quanto hanno attraversato, con tutte le sue componenti traumatiche. La parola d’ordine è ‘minimizzare’, fingere indifferenza per il proprio vissuto per poi cadere magari in un inutile e ininterrotto senso di colpa che schiaccia la responsabilità, sostituendola con un vittimismo a volte collerico.

Con queste brevi note si vuole qui fare capire che un gruppo di meditazione o di yoga in carcere è da una parte uguale a un gruppo esterno, in cui ognuno porta le sfaccettature più diverse del proprio assetto psichico, fisico ed emozionale. Ma è anche molto diverso da un gruppo esterno poiché qui, nel carcere, tutto ciò che si manifesta è amplificato e contenuto in una cappa di pesantezza inequivocabile.

Di fronte a tante varianti l’insegnante di yoga deve trovare a mio avviso un minimo comun denominatore che serva a fare funzionare il gruppo: qualcosa che tutti fanno. Non sarà necessario andare a cercare pratiche specifiche o manuali che spieghino come fare yoga in carcere. Una cosa che tutti fanno è respirare. Per questo credo che una lezione di yoga e di meditazione in carcere debba dedicare molto spazio ai pranayama. Sono efficaci, semplici, riproducibili in genere anche in cella, praticabili anche da chi è sovrappeso o presenta dolori articolari. Per arrivare a 11 minuti di pranayama a volte occorrono settimane.

Ma lo spazio contemplativo di chi vive in carcere, forse perché strappato ai ritmi altrettanto insensati della vita all’esterno, è stranamente profondo e immediatamente accessibile. Forse è la sete di silenzio, in un luogo dove voci e rumori regnano sovrani, che favorisce il passaggio a uno spazio immediatamente stabile. E quando questo spazio è riconosciuto, quando supera e azzera risate nervose, segni di distrazione o di insofferenza, i risultati sono immediatamente visibili, accompagnati da un senso di riconoscenza nel quale non bisogna crogiolarsi. Si può sempre migliorare, come insegnanti. Gli allievi sono già perfetti.

 

Una risposta a “Scegliere l’altro. Kundalini yoga e meditazione in carcere”

  1. Sat Nam
    grazie della lucida condivisione che concordo in pieno. Io faccio volontariato nel carcere di Carinola, Caserta . Ho da poco iniziato il terzo anno. Ci incontriamo in una stanza angusta , ma anche in piccoli spazi si può respirare e portare l’esperienza della vastità dell’essere e sperimentare una serena gioia. Io sono grata di questa opportunità.
    Guru Shabd Kaur

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